Burnout – perché fatichiamo a lasciare il lavoro?

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Lavoro e benessere: l’importanza di staccare la spina

Nella psicologia clinica, il burnout è considerato un disturbo mentale valutato in pazienti che richiedono un trattamento psicologico e non lavorano più a causa dei loro sintomi o dell’esperienza di gravi problemi nel funzionamento sul lavoro. Lo scopo di questo articolo è andare a capire quali sono i fattori che permettono alle persone di staccare dal lavoro, evitando di ricadere nel burnout clinico e nel workaholism, definito come una delle più attuali e rischiose forme di dipendenza. Nell’articolo si indagano anche quali fattori espongono maggiormente al rischio di burnout e alla difficoltà di delineare un chiaro confine tra la vita lavorativa e la vita privata. Infine, l’articolo espone concetti circa il benessere sul lavoro e come raggiungerlo, concentrandosi sulla necessità di adattarsi proattivamente alle richieste dell’ambiente di lavoro e alle proprie esigenze personali, per arrivare ad avere un maggior controllo delle proprie attività lavorative.

BURNOUT

Il caldo afoso e le zanzare riempiono già le nostre giornate da un po’. Agosto è alle porte. Il desiderio e il bisogno di staccare la spina sono ormai costanti pensieri quotidiani. Eppure, cos’è quella sensazione di ansia e preoccupazione che anticipa questo tanto desiderato stop? Come mai, “cosa metto in valigia?” non è l’unica domanda che ci poniamo?

Possiamo iniziare chiarendo innanzitutto quale sia il motivo per cui arriviamo così stremati all’inizio delle vacanze e bramosi di una pausa.
Uno dei principali fattori che influisce su questo stato di preoccupazione e malessere, viene definito Burnout. Il burnout, da un punto di vista organizzativo, è considerato una sindrome derivata dallo stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo, caratterizzata da tre dimensioni (WHO, 2019; Maslach e Jackson, 1981):

  • esaurimento emotivo dovuto dal sovraccarico emozionale dovuto al contatto prolungato e sistematico con i clienti,
  • depersonalizzazione intesa come risposta di forte distacco emotivo nei confronti dei clienti come reazione di difesa,
  • ridotta efficacia personale che si riferisce alla perdita di sentimento di competenza e di risultato, che coinvolge chi lavora con le persone

Da un punto di vista più clinico invece, non ha importanza se lo stress cronico sia causato dal lavoro o da circostanze private, il burnout è dovuto più generalmente da una condizione di stress (Van Dam, et al 2015).
Entrambi gli approcci, quello clinico e quello lavorativo-organizzativo, sono utili e generano conoscenze specifiche sullo stress, sul lavoro e sulla fatica. Questo stato di esaurimento deriva da una prolungata esposizione a stressor che eccedono le capacità di coping della persona (Cooper et al, 2001, p.84).

Nello specifico, le persone con burnout clinico non sono inclini a cercare aiuto e procedono di norma con la loro vita senza lamentarsi. Questo è dovuto dallo stile di coping caratterizzato da perseveranza (sforzo continuo per fare o ottenere qualcosa nonostante le difficoltà) e riluttanza a chiedere supporto sociale (Martínez et al. 2020; Van Dam et al., 2013; Wallace, 2017).

Il processo di burnout è caratterizzato da alcune fasi e la prima consiste nella mancanza di recupero delle reazioni fisiologiche allo stress (Geurts & Sonnentag, 2006).
Questo mette in luce che un essere umano è in grado di sopportare notevoli quantità di stress, se però questi periodi stressanti sono alternati a periodi di riposo per consentire il recupero. In caso contrario si passa alla fase di cambiamento nella fisiologia dello stress. Quando i livelli di stress continuano ad essere elevati per periodi di tempo prolungati, il sistema dello stress si adatta. Vengono stabiliti nuovi valori di stress omeostatico, il che significa che l’organismo imposta un livello di stress più elevato come livello predefinito (McEwen, 2017; Sterling, 2004). A causa dei livelli di stress cronicamente elevati, emergono problemi di sonno, che contribuiscono nuovamente a impedire il recupero. Le persone non riescono più a rilassarsi e diventano iperattive, con conseguente irrequietezza e incapacità di rilassarsi, in questo caso anche durante le vacanze (Eden, 2001; Fritz & Sonnentag, 2006).

I sintomi principali di questa condizione riguardano sintomi fisici (sistema immunitario, cardiovascolare, digestivo, endocrino, riproduttivo) (Sapolsky,1998), mentali (prestazioni cognitive), emotivi (instabilità, irritabilità, ansia e panico), comportamentali (conflitti interpersonali, abitudini di vita poco sane) Risulta dunque evidente che uno stato protratto nel tempo di stress e incapacità di “ricaricare le pile” renda forte il desiderio e il bisogno di prendersi una pausa. Ma cosa ce lo impedisce? Perché allora semplicemente non ci godiamo il relax di una vacanza al mare?

Ecco che qui emerge un ulteriore concetto importante, ovvero quello di workaholism.

WORKAHOLISM

Wayne E. Oates coniò il termine “workaholism” nel suo testo del 1971 per descrivere il “bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente” e identificò il workaholism come una dipendenza molto simile all’alcolismo. Oates definisce così il maniaco del lavoro, “una persona il cui bisogno di lavoro è diventato così eccessivo da creare notevoli disturbi o interferenze con la sua salute fisica, la felicità personale, le relazioni interpersonali e con il suo buon funzionamento sociale”. Pertanto, il termine in riferimento, è stato coniato per riferirsi a un processo di dipendenza.

Nello sviluppo della dipendenza dal lavoro, si osserva che, almeno all’inizio, il lavoro procura piacere, soddisfazione e contemporaneamente, o successivamente, l’impegno lavorativo comincia pian piano a limitare la propria vita sociale attraverso la preoccupazione per il lavoro (bisogno di lavorare, lavoro eccessivo, minore interesse per attività non lavorative, alternati a brevi periodi di “sazietà”.) Ciò è indice di una perdita di controllo sul tempo trascorso a lavorare, procurando conseguenze negative sulla vita. Spesso si presentano dolore emotivo soggettivo o sensazione di “esaurimento”, limitazione dell’attività sociale e/o lamentele da parte di altri significativi, e possono anche portare ad azioni pericolose (ad esempio, guidare mentre si è preoccupati per questioni di lavoro, guidare e usare il telefono cellulare, guidare mentre si è privati del sonno). D’altra parte, i maniaci del lavoro possono anche continuare a ricevere continue ricompense sociali e finanziarie come promozioni lavorative, aumenti salariali e/o elogi da parte di datori di lavoro e colleghi di lavoro mentre, allo stesso tempo, subiscono queste numerose altre conseguenze e possono utilizzare le affermazioni lavorative per scartare le obiezioni di altri significativi.

Oramai, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha inserito tra le nuove forme di dipendenze, le cosiddette new addiction, definite “dipendenze comportamentali” (Albrecht, Kirschner, & Grusser, 2007). Tali comprendono tutte quelle forme di dipendenza che hanno come oggetto un comportamento o un’attività lecita e non comportano l’assunzione di sostanze chimiche (Maeran, Boccato, 2016). Tra le new addiction troviamo: la dipendenza dal gioco d’azzardo, dal cibo, dal sesso, compresa la dipendenza dal cyber-sex o sesso virtuale; la dipendenza da internet, videogiochi, televisione, dallo shopping, dalle relazioni affettive e dal lavoro.

Per la maggior parte delle persone, queste attività sono normali, fanno parte della vita quotidiana, ma per alcuni individui possono essere dannose, patologiche e portare a gravi conseguenze. Le nuove dipendenze possono minare il funzionamento della persona da diversi punti di vista: emotivo, cognitivo, relazionale.

Le new addiction possono essere viste come caratterizzate dalla triade composta da ossessività, compulsività e impulsività (La Barbera, Guarnieri, Ferraro, 2009). Sono caratterizzate da un comportamento ripetitivo, persistente di cui la persona arriva a perderne il controllo. Una delle new addiction più attuale è il workaholism o work addiction. La parola deriva dall’analogia fonetica e patologica con alcoholism (“alcolismo” ); per questo motivo workaholism può essere tradotto in italiano con il termine “ubriacatura da lavoro”, oltre che “dipendenza da lavoro” (Maeran, Boccato, 2016).

Il dipendente da lavoro, detto anche workaholic, è una persona che prova un bisogno, un impulso a lavorare talmente forte da provocare conseguenze negative sia per la salute che per gli altri aspetti della vita. Lavora incessantemente anche al di fuori dell’orario lavorativo (nei week-end) e si prende carico di più compiti da svolgere. Si impone elevati ritmi di lavoro, anche di fronte a segnali di stanchezza. L’attività lavorativa diventa al centro della vita e sono esclusi passatempi, interessi, hobbies o altri impegni di natura diversa dal lavoro. I workaholic sono legati e imprigionati da un loro personale imperativo interno. Lavorano senza sosta e mettono l’oggetto-lavoro al centro della loro vita. In generale, il workaholic cerca di alleviare sentimenti di ansia, vuoto, bassa autostima dedicandosi completamente al lavoro cercando di “far molto” per avere la sensazione di “valere molto” (Guerreschi, 2005).

Sulla base di quanto detto è possibile osservare la triade prima citata nel fenomeno del workaholism. La prima è l’ossessività: il workaholic pensa incessantemente al lavoro, alle attività che deve svolgere presenti e future; la seconda è la compulsività: la persona agisce, lavora, sente il bisogno ripetuto di svolgere le sue attività continuamente, in modo ripetitivo; la terza è l’impulsività: il lavoro è qualcosa che deve essere sempre presente nella vita del workaholic.

Di fondamentale importanza è, dunque, oggi più che mai, riconquistare un senso di benessere correlato al lavoro, disintossicandosi dalle preoccupazioni e imparando a “staccare la spina”.

LAVORO-BENESSERE

L’importanza del lavoro è evidente anche all’interno dei principi fondamentali della Costituzione Italiana quando viene affermato che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro“ e che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Il lavoro è l’elemento essenziale dell’identità personale e sociale in quanto permette l’espressione della persona stessa, e permette il raggiungimento dell’autonomia personale, presupposto per la dignità personale, dando la possibilità di partecipare attivamente all’aspetto economico, sociale e culturale dell’individuo e della comunità.

Quando parliamo di benessere, non parliamo di sola ricerca del piacere, quello che viene chiamato benessere edonico, (Diener, 1984) ma di quello che viene definito benessere eudaimonico (Ryan & Deci, 2001b): un concetto che affonda le sue radici nel pensiero di Aristotele secondo cui il concetto di felicità incorpora i temi dello scopo, crescita personale, autonomia e padronanza.

Rispondiamo insieme a un po’ di domande per avere una panoramica completa del fenomeno, per fornire spunti di riflessione, suscitare ulteriori dubbi e approfondimenti e, perché no, sperare che questo possa incentivare a considerare il proprio lavoro in un’ottica diversa.

Innanzitutto, chiariamo quali sono le caratteristiche del lavoro che devono essere presenti per essere definito tale.

Hackman and Oldham (1976) hanno definito il lavoro significativo come “il grado con cui il dipendente percepisce il proprio lavoro come generalmente significativo, prezioso e meritevole”.
Successivamente, Blustein (2006) lo spiega come ciò che permette il soddisfacimento di tre bisogni umani: quello di sopravvivenza e potere, di connessione sociale e di autodeterminazione. Per bisogno di sopravvivenza si intende avere sicurezza finanziaria; per bisogno di relazione, sostegno dai colleghi; per autodeterminazione, controllo sul lavoro.

E qual è la relazione tra lavoro significativo e burnout?

Considerando il lavoro come aspetto essenziale della salute mentale, S. Y. Kim et al. (2017) hanno evidenziato che i tre bisogni sopracitati promuovono il benessere psicologico delle persone, nello specifico rispetto agli affetti positivi vissuti e alla soddisfazione di vita (Soren & Ryff, 2023b).
Secondo Allan et al. (2018) questa relazione è dovuta all’affetto positivo che viene sperimentato quando si è impegnati in un lavoro significativo, che migliora la prestazione e di conseguenza, aumenta anche la soddisfazione di vita.

Dunque, possiamo confermare che il lavoro può essere considerato un fattore protettivo nei confronti del burnout (Passmore et al., 2020).

Nell’ottica di promozione del benessere, numerose indagini evidenziano che il lavoro è collegato a diversi indicatori di benessere e salute: ad esempio avere basso controllo sul lavoro, richieste elevate, scarso supporto, insicurezza lavorativa e orari di lavoro lunghi è associato a ideazione suicidaria (Choi, 2018); l’ingiustizia percepita sul lavoro quindi ad esempio il non avere un lavoro rispettato, non avere un lavoro gratificante, percepire che gli altri abbiano lavori migliori è associato a maggiori sintomi di insonnia, con ricadute negative sul lavoro e sulla famiglia (Lee et al., 2019). Percepire insicurezza lavorativa prevede una qualità soggettiva del sonno più scarsa con ricadute lavorative negative (Kim et al., 2020).

Ma, è l’esperienza lavorativa a influenzare il benessere psicologico o viceversa? Sembra che sia il benessere a predire maggiore probabilità di assunzione, nell’ottica in cui avere la percezione che la vita sia generalmente sensata, comprensibile e controllabile e avere la sensazione di essere in continua via di sviluppo, crescita ed espansione siano promotori di impegno, dedizione ed efficacia (Chia & Hartanto, 2021b).

 

Quali sono invece le conseguenze di un lavoro non significativo?

Esso mina la capacità di un individuo di partecipare al lavoro di cooperazione sociale, ostacolando lo sviluppo delle sue capacità di azione libera e autonoma; mina il senso di autostima e valore personale, della sua posizione rispetto agli altri; e ostacola il suo senso di efficacia, di poter agire con gli altri nel mondo. Nel complesso questi danni alle capacità, allo status e all’efficacia riducono la capacità di una persona di costruire l’identità necessaria per garantire la sensazione che la sua vita abbia un significato, quindi anche una diminuzione del benessere (Yeoman, 2013)

A fronte di queste utili informazioni, cosa e come possiamo agire nei confronti del lavoro? Esistono delle soluzioni? Esiste un modo per accrescere il benessere e la soddisfazione?

Si e si chiama Job Crafting (Signore et al., 2020): si intende modificare i confini, compiti e responsabilità del proprio lavoro per renderlo il più gestibile possibile dal punto di vista delle richieste e per adattarlo alle proprie preferenze e abilità. È una rielaborazione e ristrutturazione del proprio ruolo lavorativo per renderlo più significativo e motivante. Alcuni esempi sono la riorganizzazione delle mansioni all’interno dell’equipe in modo tale che il focus di ognuno sia sulle attività preferite; la partecipazione alle attività ritenute interessanti; l’avere maggiore responsabilità; la creazione di nuove relazioni sociali.

Cosa ci portiamo a casa da questa lettura?

Riprendendo i fondamenti etici e virtuosi dell’eudaimonia di Aristotele, ovvero che il lavoro è un potenziale veicolo per raggiungere la felicità perché permette di mettere in atto talenti, punti di forza e capacità unici degli individui, funzionali per il raggiungimento di obiettivi significativi non solo del singolo, nel posto di lavoro, ma, cosa ancora più importante, anche delle società, che, in questo modo, vive maggiori livelli di libertà, benessere e capacità umana percepita (Soren & Ryff, 2023b).

 

Bibliografia

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