Autostima e fallimento

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Frasi come “abbi fiducia in te stesso”, “hai troppa/troppo poca autostima”, “la mia autostima è sotto i tacchi” le abbiamo sentite o dette tutti almeno una volta nella vita. Siamo cresciuti con la convinzione che una buona autostima sia il rimedio a tutti i problemi della vita. Ma siamo sicuri che sia così? E quando ci troviamo davanti ad un fallimento avere un’alta autostima è davvero la panacea a tutti i nostri mali? Alcune ricerche suggeriscono che potrebbe non essere così.

Secondo uno studio di Brown e Dutton, l’autostima non influenza quanto felici o infelici si sentano le persone dopo un successo o un fallimento, ma influenza quanto si sentono umiliati e quanto si vergognano di sé stessi quando falliscono. Ovviamente, tutti provano felicità e orgoglio quando hanno successo. È quando si fallisce che emergono le differenze nell’autostima delle persone. A seguito di un fallimento, infatti, i sentimenti di valore del Sé precipitano nelle persone con bassa autostima ma rimangono relativamente alti nelle persone con una buona autostima. Questo accade probabilmente perché le prime generalizzano le implicazioni negative del fallimento e finiscono per valutare la loro intelligenza e le loro competenze più negativamente dopo un fallimento. Le persone con alta autostima non mostrano questo effetto, anzi, fanno esattamente l’opposto: valutano la loro intelligenza generale un po’ più positivamente dopo un fallimento che dopo un successo (Brown e Dutton, 1995).

Ma perché le persone con bassa autostima reagiscono più intensamente ai fallimenti?

Campbell (1990) ha dimostrato che le persone con bassa autostima sono generalmente più insicure delle loro qualità e capacità. Questa incertezza potrebbe portare a una maggiore suscettibilità ai feedback ambientali.

Steele (1988) afferma che le persone fanno fronte ai fallimenti concentrandosi sulle loro virtù in altri campi, non correlati. Siccome le persone con bassa autostima credono di avere meno qualità positive rispetto alle persone con alta autostima, sono meno capaci di accedere a queste risorse cognitive quando falliscono e quindi soffrono un maggior distress emozionale.

Queste teorie porterebbero alla conclusione che se le persone con bassa autostima potessero essere convinte di avere molte qualità positive, non proverebbero più umiliazione e vergogna di fronte ai fallimenti. Gli autori però optano per una prospettiva diversa: se assumiamo che le persone con bassa autostima abbiano iniziato fin da piccoli a pensare a sé stessi come “cattivi”, senza valore o carenti di qualcosa ogni volta che fanno un errore, è evidente come persuadere queste persone di avere altre qualità positive non basti. È necessario spezzare la connessione automatica fra il fallimento e il sentirsi privi di ogni valore (Brown e Dutton, 1995). Ma come è possibile farlo? Attraverso l’auto-compassione.

Cos’è l’auto-compassione

Kristin Neff ha definito l’auto-compassione (self-compassion) come una capacità composta da tre componenti principali: la gentilezza verso sé stessi invece del giudizio, un senso di umanità comune invece dell’isolamento e la consapevolezza invece della sovra-identificazione con il proprio fallimento. Gli individui auto-compassionevoli sono quelli che riescono a offrire a sé stessi calore e comprensione non giudicante quando affrontano sofferenze, inadeguatezza o fallimenti, invece di sminuire il loro dolore o rimproverarsi. Questo processo coinvolge anche il riconoscere che essere imperfetti, fare errori e incontrare delle difficoltà è parte integrante della comune esperienza umana.

L’auto-compassione offre un’alternativa al più conosciuto concetto di autostima, i cui benefici sono stati ampiamente sopravvalutati e i rischi sottostimati. Un’alta autostima, infatti, potrebbe condurre a problemi di narcisismo (Bushman & Baumeister, 1998), ad una percezione di sé distorta (Sedikides, 1993), a pregiudizi (Aberson, Healy, & Romero, 2000) ed a violenza verso coloro che minacciano il proprio ego (Baumeister, Smart, & Boden, 1996). L’auto-compassione offre gli stessi benefici dell’autostima senza gli effetti negativi, in quanto produce affetto verso sé stessi e un forte senso di auto-accettazione, senza che questi sentimenti siano basati sulla valutazione della performance o sul confronto con gli altri. Piuttosto, essi derivano dal riconoscimento della natura imperfetta della condizione umana, in modo che il sé possa essere trattato con gentilezza, senza sentire il bisogno di sollevarsi al di sopra degli altri. Gilbert (2005) suggerisce che l’auto-compassione aumenta il benessere perché aiuta le persone a sentirsi curate, connesse ed emotivamente calme. Egli sostiene che l’auto-compassione disattiva il threat system (sistema di minaccia, associato a sentimenti di insicurezza, difesa e al sistema limbico) e attiva il self-soothing system (sistema per calmarsi, associato a sentimenti di attaccamento sicuro, sicurezza e al sistema ossitocina-oppioidi).

Auto-compassione e fallimento

Alcuni studi hanno dimostrato che le persone auto-compassionevoli sono più capaci di vedere le esperienze di fallimento come un’opportunità di imparare e crescere, invece che avere paura di cosa un fallimento può voler dire sul loro valore. Questo accade perché sono più gentili con sé stesse quando falliscono, sono più consapevoli che il fallimento è parte della comune esperienza umana e sono più consapevoli delle loro emozioni negative. Per esempio, una ricerca su alcuni studenti ha mostrato che, anche quando ricevono un voto negativo, gli individui auto-compassionevoli riescono a rimanere interessati e coinvolti nell’argomento del corso. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che tali persone non si auto-criticano eccessivamente quando falliscono e non si sentono identificati con il loro fallimento. Inoltre, è stato notato che mantengono livelli più alti di competenza percepita rispetto agli altri. In più, esaminando la relazione tra auto-compassione e il modo in cui le persone fanno fronte a un fallimento accademico, è stato trovato che la prima era associata significativamente alla tendenza a far fronte ai sentimenti negativi utilizzando strategie focalizzate sulle emozioni che promuovono la reinterpretazione della situazione, la crescita personale e l’accettazione. Dato che un fallimento non può essere cancellato, è ragionevole accettare la situazione con la maggior calma possibile e poi vedere cosa si può imparare da questa esperienza. Con l’auto-compassione, i sentimenti negativi vengono riconosciuti e accettati. Quando una persona tratta le situazioni di fallimento e sé stessa con compassione non c’è bisogno di negare, reprimere o evitare i sentimenti negativi – questi possono essere riconosciuti, accettati, elaborati e può essere loro permesso di passare. I risultati di questi studi, infine, suggeriscono che l’auto-compassione facilita l’apprendimento liberando gli individui dalle conseguenze debilitanti dell’autocritica, dell’isolamento e dell’iper-identificazione con il fallimento, e dotandoli della capacità di essere gentili con sé stessi, di un senso di umanità comune e di un buon equilibrio emozionale. Inoltre, l’auto-compassione è associata con minori livelli di ansia (Neff, Hsieh e Dejitterat, 2005).

Conclusioni

Da quanto è stato esposto fino ad ora sembrerebbe che l’autostima produca più problemi che vantaggi alla persona: se è alta si rischia di diventare narcisisti, se è bassa ci si deprime. L’auto-compassione invece permette di mantenere un senso di valore del sé senza avere il bisogno di provare continuamente la propria bravura e competenza. Anzi, anche nelle esperienze di fallimento, la persona auto-compassionevole troverà il modo per imparare qualcosa su sé stessa e ricordarsi che lei non è il suo fallimento.

Nicole Truzzi

BIBLIOGRAFIA

Aberson, C. L., Healy, M., & Romero, V. (2000). Ingroup bias and self-esteem: a meta-analysis. Personality and Social Psychology Review, 4, 157–173.

Baumeister, R. F., Smart, L., & Boden, J. M. (1996). Relation of threatened egotism to violence and aggression: The dark side of high self-esteem. Psychological Review, 103, 5–33.

Brown, J. D., & Dutton, K. A. (1995). The thrill of victory, the complexity of defeat: Self-esteem and people’s emotional reactions to success and failure. Journal of personality and social psychology68(4), 712.

Bushman, B. J., & Baumeister, R. F. (1998). Threatened egotism, narcissism, self-esteem, and direct and displaced aggression: does self-love or self-hate lead to violence? Journal of Personality and Social Psychology, 75, 219–229.

Campbell, J. D. (1990). Self-esteem and clarity of the self-concept. Journal of personality and social psychology59(3), 538.

Gilbert, P. (2005). Compassion and cruelty: a biopsychosocial approach. In P. Gilbert (Ed.), Compassion: Conceptualisations, research and use in psychotherapy (pp. 9–74). London: Routledge.

Neff, K. D., Hsieh, Y. P., & Dejitterat, K. (2005). Self-compassion, achievement goals, and coping with academic failure. Self and identity4(3), 263-287.

Neff, K. D., Kirkpatrick, K. L., & Rude, S. S. (2007). Self-compassion and adaptive psychological functioning. Journal of research in personality41(1), 139-154.

Sedikides, C. (1993). Assessment, enhancement, and verification determinants of the self-evaluation process. Journal of Personality and Social Psychology, 65, 317–338.

Steele, C. M. (1988). The psychology of self-affirmation: Sustaining the integrity of the self. In L. Berkowitz (Ed.), Advances in experimental social psychology (Vol. 21, pp. 261-302). New York: Academic Press.

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