Il Carnevale da una prospettiva psicologica
Ti invitano ad una festa di Carnevale e ovviamente ti viene chiesto di mascherarti, da cosa ti vorresti vestire? Perché proprio quel travestimento? Se non te lo sei mai chiesto e sei curioso di scoprire il lato psicologico che ci può essere dietro questa festività, ti invitiamo a leggere questo articolo.
La storia del Carnevale
Il Carnevale è una festa che si celebra in molte culture del mondo, ma in modi differenti. L’etimologia della parola “Carnevale” è controversa. La teoria più accreditata è che derivi dal latino “carnem levare”, ovvero “eliminare la carne”, infatti questa festività si conclude con il Martedì Grasso, giorno che precede la Quaresima, un periodo di digiuno e di astinenza dalla carne. Un’altra teoria sostiene che questa parola deriva da “carrus navalis”, che significa “carro navale”. Questa teoria è supportata da fonti che attestano che in epoca romana si svolgevano processioni con carri navali durante i Saturnali, una festa pagana che precedette il carnevale cristiano (Lozica, 2007).
I primi riferimenti al Carnevale risalgono proprio all’antica Roma, in quanto sono state evidenziate alcune usanze che si attuavano mentre si celebravano i Saturnali, una festa in onore del dio Saturno. Durante i Saturnali le regole sociali venivano sovvertite, infatti in questa occasione gli schiavi potevano prendere il posto dei padroni. Tra gli schiavi veniva eletto un princeps, una sorta di caricatura della classe nobile, che veniva vestito con una maschera buffa e colori sgargianti, tra cui il rosso, il colore degli dei. Era la personificazione di una divinità infera che proteggeva le anime dei defunti e le campagne (ibidem).
Il culturologo svizzero Meuli (ibidem) concorda nell’attribuire l’origine della tradizione del Carnevale alle celebrazioni durante i Saturnali, aggiungendo inoltre che le persone commemoravano il ritorno dei propri antenati, coinvolgendo l’uso di maschere come parte integrante di un rituale.
Già nell’antichità si credeva che il Carnevale fosse, non solo un periodo di festa, ma anche simbolo di rinnovamento, in cui il caos sostituiva l’ordine costituito, ma una volta terminato il periodo festivo, l’ordine riemergeva rinnovato e garantito per un ciclo che durava fino all’arrivo del carnevale successivo.
Carnevale e le teorie psicologiche
Hegel affermava che l’uomo sentisse il bisogno di avere un’identità significativa e di essere riconosciuto dagli altri. Far parte di una comunità che conferisce un’identità, non solo crea legami sociali, ma contribuisce anche a dare un senso di sé (Langman & Ryan, 2009).
Col tempo sono state proposte diverse teorie che potessero spiegare il motivo per cui fin dall’antichità si sia sentito il bisogno di mascherare la propria identità, o addirittura rubare l’identità di qualcun altro.
Secondo la Teoria dell’identità sociale di Tajfel e J.C. Turner, citata da Hogg (1995), noi definiamo noi stessi in base alle categorie sociali alle quali apparteniamo, come per esempio la nazionalità. Queste categorie forniscono una definizione di chi siamo sulla base delle caratteristiche distintive di quella categoria, diventando parte integrante del nostro concetto di sé. Successivamente, alcuni autori come Skrimshire (2006) hanno ripreso questa teoria e l’hanno associata al Carnevale. Infatti, Skrimshire cita l’antropologo Scott, il quale sostiene che il Carnevale è un periodo in cui le persone possono sperimentare nuove identità e nuovi ruoli sociali. La maschera, in particolare, fornisce un’opportunità per nascondere la propria identità sociale e sperimentare nuovi modi di essere. La maschera è un simbolo di trasformazione e cambiamento, ciò può essere un modo per esplorare nuovi aspetti di sé stessi, per liberarsi dalle pressioni sociali o per sfidare le norme o le convenzioni.
Freud ha introdotto nella sua teoria dell’inconscio il concetto della repressione emotiva, sostenendo che la mente umana tende a bloccare o reprimere pensieri, emozioni, ricordi dolorosi o minacciosi per la sopravvivenza psicologica dell’individuo. Questa teoria è stata in seguito ripresa da Billig (1999), psicologo sociale di cui ne parla Skey (2006), affermando che il Carnevale è un momento in cui le persone possono esprimere le proprie emozioni represse, come la rabbia, la frustrazione o la paura. Il clima di festa e di permissività del Carnevale permette alle persone di lasciarsi andare a comportamenti che sarebbero normalmente considerati inaccettabili. Durante il Carnevale, infatti, le persone possono bere e mangiare in modo eccessivo, possono indossare abiti stravaganti o possono fare cose che normalmente non farebbero.
Forth (2018) parla di un’altra teoria elaborata da Arnold van Gennep, il quale ha proposto la teoria del rito di passaggio. Gennep sostiene che un rito di passaggio segna la fine di un periodo e l’inizio di uno nuovo. Effettivamente, in molte culture il carnevale si svolge alla fine dell’inverno, in preparazione della primavera e ciò simboleggia la rinascita e il rinnovamento. Questa teoria prevede tre fasi: la prima, denominata “Separazione”, ovvero la persona sperimenta il distacco iniziale dalla situazione o dallo stato precedente; la seconda fase della “Liminalità” è un momento di transizione in cui la persona si trova in uno stato di ambiguità ed incertezza, infine la terza fase, ovvero “Aggregazione”, in cui la persona torna alla società o alla situazione con un nuovo stato.
Successivamente, Forth afferma che l’antropologo britannico Victor Turner ha implementato alla seconda fase il concetto di “communitas” per descrivere il senso di comunità e uguaglianza che può emergere durante la seconda fase. Egli sosteneva che il concetto di “communitas” rappresentasse un “anti-struttura”, che si manifestava attraverso situazioni in cui le attività si svolgevano al di fuori delle strutture sociali tradizionali, favorendo la creatività ed il cambiamento. Turner ha anche enfatizzato l’importanza dei simboli e dei rituali durante la Liminalità, sottolineando come questi siano fondamentali per la ristrutturazione dell’identità e del ruolo dell’individuo o del gruppo.
In seguito, alcuni autori tra cui Mathew e Pandya (2021) hanno confrontato la teoria di Turner con il Carnevale, ritenendo che questa festività si riferisce ad un’idea di rovesciamento delle regole e delle posizioni sociali, creando uno spazio in cui la gerarchia normativa viene momentaneamente messa da parte. Quindi, il Carnevale offre un senso di libertà poiché le restrizioni abituali vengono temporaneamente annullate, consentendo una maggiore espressione individuale. Il periodo carnevalesco contribuisce, inoltre, a creare un ambiente in cui si percepisce una notevole sensazione di uguaglianza, un senso di comunità in cui le persone sperimentano un livello di parità e connessione più profondo.
Per questo motivo le persone possono essere più propense a voler cambiare la propria identità, sentendosi liberi di esprimere sé stessi. Ma se vuoi scoprire di più sui significati delle maschere carnevalesche ti invitiamo a continuare a leggere questo articolo!
Ma qual è il ruolo della maschera?
Magliozzi, psicologo-psicoterapeuta, all’interno del proprio blog (Magliozzi, 2023) suggerisce che da un punto di vista psicologico, le maschere potrebbero avere il ruolo di proiettare i nostri desideri personali, di rappresentare una fuga dalla nostra quotidianità, potrebbero essere legate all’espressione della nostra libertà e della nostra vitalità. Attraverso una maschera, chiunque può impersonare un eroe, un personaggio dei cartoni animati o delle favole che ci raccontavano da bambini. Si sviluppa quindi la fantasia, il piacere di poter per qualche ora, essere scollegati dal proprio ruolo sociale, per assumere l’identità di un ideale. Ad esempio, per una persona timida e introversa, indossare la maschera del suo personaggio preferito, potrebbe farle acquisire un senso di sicurezza e disinvoltura che altrimenti non avrebbe.
Se pensiamo alla vita di tutti i giorni, ognuno di noi indossa continuamente una maschera. Ci comportiamo in modo diverso in base alle circostanze e ai tipi di interazioni sociali che abbiamo: con il nostro datore di lavoro ci comportiamo in maniera formale, con i nostri amici mettiamo la maschera della socievolezza, con il nostro partner quella della cura e della dolcezza.
Quindi, verrebbe da chiedersi, se l’indossare una maschera di carnevale, potrebbe, paradossalmente, liberarci per un giorno dalle pressioni sociali e renderci liberi di esprimere ciò che vorremmo essere in realtà. Una maschera che ci libera da un’altra maschera.
Non a caso, la maschera può essere utilizzata con scopi terapeutici, come ad esempio, nello psicodramma che è una tecnica che si basa sulla rappresentazione scenica e la drammatizzazione di situazioni di vita reale al fine di esplorare e risolvere problemi emotivi e relazionali. In questa tecnica, la maschera può essere utilizzata come uno strumento terapeutico utile soprattutto a bambini e adolescenti che hanno difficoltà di comunicazione (Pires, Rojas, Sales et Vieira, 2021) ed anche con pazienti che hanno difficoltà a gestire ed esternalizzare in modo corretto la rabbia (Fryrear & Stephens, 1988).
Il mascherarsi, però, non ha solo effetti benefici per la propria identità, talvolta, infatti, ci si identifica talmente tanto con la maschera o con il costume che si sta indossando, da perdere il contatto con il proprio sé, fino ad identificarsi completamente con il personaggio che si sta interpretando. Basti pensare, ad esempio, ad un famoso esperimento condotto dallo psicologo sociale Philip Zimbardo nel noto esperimento sulla prigione costruita all’interno dell’università di Stanford nel 1971 (Haney et al., 1973; Hogg & Vaughan, 2016). Il suddetto esperimento si basava su un gioco di ruolo che è stato svolto da soggetti volontari: alcuni partecipanti dovevano interpretare dei detenuti, altri , invece, delle guardie carcerarie autoritarie. Idealmente l’esperimento sarebbe dovuto durare per due settimane, ma Zimbardo dovette interromperlo dopo soli 6 giorni, perchè le guardie erano talmente immerse nel loro ruolo che avevano iniziato a comportarsi in maniera brutale nei confronti dei finti carcerati. Coloro i quali si erano ritenuti “pacifisti”, nel ruolo di guardie erano quelli che punivano in maniera più violenta ed aggressiva i carcerati (Zagni , 2011).
Un altro aspetto negativo del mascherarsi è l’anonimato che ne deriva. Secondo la teoria della deindividuazione, infatti, l’anonimato può portare ad una perdita della consapevolezza di sé, che può essere causa di comportamenti antisociali (Levine et Hogg, 2010). Ad esempio, uno studio di Miller e Rowold (1979) riguardante l’associazione tra deindividuazione e i costumi di Halloween indossati dai bambini, ha dimostrato che coloro i quali indossavano un costume erano più propensi a violare le norme impartite dallo sperimentatore. Più precisamente, sono stati coinvolti bambini tra i 9 e i 13 anni, alcuni mascherati per Halloween ed altri no. Il loro compito era quello di prendere massimo due caramelle ciascuno durante il classico “dolcetto , scherzetto” che si fa in occasione di questa festività. I bambini vestiti in maschera avevano preso più caramelle rispetto agli altri bambini non travestiti, disubbidendo alle istruzioni precedentemente date.
Dai risultati della letteratura analizzata, emerge come non si possa dire in assoluto che mascherarsi sia un’attività intrinsecamente positiva o negativa per il nostro sé. Piuttosto, si può sostenere che, da un lato, ci sono contesti e momenti nei quali la maschera può essere un’alleata che ci permette di esplorare la nostra identità e le nostre emozioni, e, dall’altro lato, sussiste maggiormente un rischio che la maschera ci faccia perdere il contatto con la nostra identità, ci depersonalizza.
Ma come può avere un ruolo così tanto dicotomico e per certi versi, contraddittorio?
Possiamo tentare di dare una risposta riprendendo e approfondendo una teoria di un autore di cui abbiamo già parlato nel paragrafo precedente: J.C. Turner e “la teoria della categorizzazione del sé” (1999). Essa mira a spiegare il comportamento degli individui inseriti all’interno di un gruppo. L’autore ci fa notare come esista una contrapposizione tra i diversi livelli di astrazione che la nostra identità può assumere. Semplificando un po’, ad un estremo troviamo un livello molto inclusivo, nel quale indossiamo la maschera identitaria di “esseri umani” che ci rende praticamente uguali a tutti gli altri esseri umani, nell’altro indossiamo una maschera personale, che ci rende unici ed irripetibili. Esistono anche innumerevoli livelli intermedi di maschere identitarie che possono definire l’appartenenza a gruppi/ruoli specifici e la non appartenenza ad altri. Pensiamo alla maschera di “figlio”, di “politico” o di ’“appassionato di psicologia” e così via… Tanto più inclusive sono queste maschere tanto più si avvicinano al livello di massima inclusione, ovvero la maschera da “esseri umani”, viceversa, tanto più esclusive sono, tanto più si avvicinano al livello di massima esclusione, ovvero la nostra maschera personale.
Quindi, una possibile risposta alla nostra domanda arriva ragionando rispetto a quello che Turner chiama “antagonismo funzionale” tra i diversi livelli di categorizzazione di sé : quando è attivo un livello gli altri sono inibiti. Indossare una maschera ad uno specifico livello di inclusione, “amanti della Juventus”, ci fa sentire più simili a chi indossa la stessa maschera e differenti rispetto a chi ne indossa altre, “amanti dell’Inter”. Ciò inibisce le somiglianze e le differenze che proveremmo indossando maschere più o meno inclusive, “amanti del calcio” o “membri della nostra famiglia”. Ecco quindi come, da un lato, indossando una maschera possiamo arrivare a perdere il contatto con il nostro sé, e come dall’altro, possiamo indossare maschere molto creative e personali che ci permettono un’esplorazione introspettiva.
Il Carnevale può essere una risorsa nel processo terapeutico?
Solitamente indossiamo maschere senza esserne pienamente consapevoli, diventa quasi un automatismo. Forse è proprio la mancanza di consapevolezza che è causa degli elementi negativi della maschera, dei quali abbiamo parlato. Potremmo, invece, considerare il Carnevale come un momento nel quale possiamo creare le nostre maschere, personalizzarle e trovare dei modi di esprimere la nostra identità all’interno dei diversi contesti sociali.
La storia della donna brasiliana Elisama, che a breve vi racconteremo, è un chiaro esempio di come la maschera possa essere un modo per sentirci noi stessi, per sentirci liberi e trovare il proprio posto nel mondo (Evangelista et Fulford, 2021).
In Brasile, il Carnevale riveste un ruolo importante, perché si tratta di una ricorrenza che dà modo di ricordare al popolo il loro senso di appartenenza e le loro tradizioni.
Tutto iniziò verso il 1800 quando, a causa della colonizzazione europea, il Brasile, ed in particolare Rio de Janeiro, subì rapidamente una “europeizzazione” che portò alle popolazioni più povere del Brasile ad essere considerate come un ostacolo per via dei loro usi e costumi. Queste persone vennero etichettate come “pazzi” e incivili, tanto che furono criminalizzate e spostate ai margini della città, spesso trovandosi ingiustamente in prigioni e manicomi.
In questo contesto storico il Carnevale emerge come forma di resistenza contro le forze del colonialismo. Ancora oggi, infatti, in alcuni contesti, come quello nel quale vive Elisama, ha mantenuto il proprio ruolo di lotta per l’affermazione e il mantenimento di sotto-culture.
Elisama è una donna brasiliana, ha un figlio con diagnosi di disturbo da iperattività e per tale motivo ha un continuativo rapporto con la psicologa che lo ha in cura. Col tempo, il figlio di Elisama migliora e raggiunge la maggiore età, ciò provoca in Elisama una crisi personale e identitaria, poiché fino a quel momento la sua identità si era incentrata sulla maschera di “madre”. A peggiorare la situazione ci sono state difficoltà economiche e conflitti con l’ex-marito. La sofferenza di Elisama è visibile e viene percepita dal vicinato come “pazzia”, una maschera che le viene imposta. La ormai ex-psicologa del figlio le suggerisce la partecipazione al progetto Loucura Suburbana: una comunità che organizza una parata di carnevale che coinvolge la popolazione locale e i pazienti di un centro psichiatrico. Tale progetto vuole combattere lo stigma legato alla salute mentale e alle minoranze culturali. Inizialmente, dietro le quinte, Elisama trova un modo per valorizzare le proprie capacità e passioni personalizzando così il proprio ruolo, la propria maschera: prima come “Costumista di Locura Suburbana”, poi come “Porta Bandeira”, ovvero chi conduce la parata di Carnevale. Avviene una vera e propria rinascita personale, Elisama afferma fieramente la propria identità e la esibisce in quel vicinato che, adesso, non la giudica più negativamente.
Tutt’ora, Loucura Suburbana affronta temi come il pregiudizio e la lotta agli stereotipi, e lo fa attraverso il Carnevale, diventando un mezzo di espressione per i partecipanti che si impegnano nella sfida alle barriere sociali promuovendo, così, la propria guarigione.
Elisama è riuscita a ricostruire il suo senso di identità e la sua autostima, che l’hanno portata a miglioramenti nel suo benessere mentale, nonostante le sue invariate circostanze personali che sono state fattori significativi nel suo declino verso la malattia mentale.
Questa storia rappresenta un esempio di come nel campo della salute mentale si possa trarre il meglio da ciò che le risorse del territorio possono offrire, in questo caso, risorse in termini storici e culturali.
Considerazioni conclusive
Speriamo che attraverso questo articolo abbiate potuto intraprendere un viaggio guidato, iniziando dalla storia del Carnevale e passando per un breve riepilogo di alcune teorie ad esso correlate. L’ approfondimento sul ruolo della maschera, ha permesso di concentrare l’attenzione su una possibile applicazione pratica in campo clinico: la storia di Elisama, che ha unito aspetti meramente culturali, come il Carnevale, con altri specificatamente psicologico-terapeutici. Speriamo che questo percorso vi abbia consentito di scoprire nuovi aspetti e di approfondire la vostra comprensione del tema.
Vorremmo lasciarvi con alcune nostre considerazioni personali in merito a quanto è stato discusso in questo articolo.
Sebbene ci siano pareri contrastanti non solo riguardo a come viene festeggiato il Carnevale, ma anche a come lo viviamo e come ci fa sentire, vorremmo lasciarvi un messaggio positivo: è importante che ognuno mantenga la propria identità e che non abbia paura di esporsi o mostrarsi. Occasioni come questa festività ci permettono di essere noi stessi, di riuscire ad esprimerci e a sentirci liberi dai vincoli sociali di cui facciamo esperienza ogni giorno.
Ora, per concludere, vi chiediamo di prendervi un momento per riflettere, pensate alle maschere che indossate quotidianamente e cercate di canalizzare la vostra attenzione su quali possibili maschere vi appartengono. Cosa potreste fare per renderle maggiormente vostre? Espressione di ciò che siete realmente.
Arturo Palma
Laura Rosponi
Tiziana Sassanelli
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